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Le Stagioni

Il poema nazionale lituano

Le Stagioni (titolo originale Metai) – il lavoro più impegnativo e di gran lunga più importante della produzione di Donelaitis – è unanimemente considerato il capolavoro della letteratura lituana. È il poema nazionale, il fondamento linguistico e culturale di un intero paese, l’opera che più di tutte rappresenta la Lituania nel mondo. Basti pensare che ad oggi è stato tradotto (del tutto o in parte) in oltre 20 lingue. Per la sua importanza culturale, linguistica, letteraria e identitaria, esso rappresenta in Lituania pressappoco quello che la Commedia di Dante è per Italia. All’interno della storia della letteratura lituana, Le Stagioni rappresentano anche l’esordio delle belle lettres a tema profano (fino a quel momento c’erano stati catechismi, trattati e libelli religiosi, commentari alle Sacre Scritture, ecc.). Inoltre, nei secoli successivi, l’opera è rimasta il modello imprescindibile di lingua letteraria. A questi versi è affidata per sempre la fama di Donelaitis come primo grande poeta lituano.

L’opera è scritta in esametri e si compone di quattro canti, dedicati ciascuno ad una stagione dell’anno:

Gioie di primavera (orig. Pavasario linksmybės), 660 vv.;

Fatiche d’estate (orig. Vasaros darbai ), 714 vv.;

Ricchezze d’autunno (orig. Rudenio gėrybės), 912 vv.;

Affanni d’inverno (orig. Žiemos rūpesčiai), 682 vv.

Il titolo Metai non fu dato da Donelaitis, bensì da Ludwig Rhesa, che ne curò la prima edizione (con traduzione in tedesco) nel 1818. Non c’è dubbio che i quattro canti fossero stati pensati come parte di un unicum, il che giustifica l’adozione di un titolo generale.

 

Come definirlo?

Definire in modo univoco il genere di Metai è un compito impossibile. In esso si ritrovano riflessi del Classicismo, del Barocco, dell’Illuminismo. Per ampiezza di respiro e maestosità complessiva possiamo chiamarlo poema, ma certo differisce di molto dai modelli epici classici. Racconta delle storie, ma non è una ‘storia’, nel senso che non procede secondo una trama (tanto che i quattro canti si potrebbero leggere in ordine sparso). La rappresentazione vivida di scene di vita dei protagonisti, arricchita di dettagli e ed espressioni iperboliche, talvolta perfino da un lessico volgare, fanno pensare al virtuosismo barocco. La scelta dell’esametro e le descrizioni campestri ricordano i modelli classici antichi (Le opere e i giorni di Esiodo, le Bucoliche di Virgilio), mentre il tema delle quattro stagioni ricollega Metai alla letteratura classicheggiante in voga nel Settecento. Si pensi a The seasons (1726-30) del poeta scozzese James Thomson, a Les saisons (1769) del francese Jean-François de Saint-Lambert, a Opisanie czterech częsci roku “Descrizione delle quattro stagioni dell’anno” (1752) della polacca Elżbieta Drużbacka. Se il debito di Donelaitis verso i classici è grande, è anche vero che la sua opera è assai originale e per molti versi perfino coraggiosa. Infatti l’autore non è interessato a copiare i grandi, al punto che non teme di usare la lingua viva, quotidiana, ‘impura’ dei suoi protagonisti, ovvero i contadini lituani servi della gleba. I suoi personaggi non hanno nulla a che vedere con i pastorelli degli idilli virgiliani, essi sono quanto di più lontano dalle forti personalità di un Odisseo o di un Enea. Sul rapporto con i classici e sull’originalità del poeta, sono illuminanti le parole di Giuseppe Morici, probabilmente il primo in Italia che si sia interessato a Donelaitis (o, come scriveva lui, Donalitius):

“In un tempo in cui la poesia, specie tedesca, che Donalitius doveva ben conoscere, era imbevuta di classicismo, in lui, pure dotto di greco e di latino, non s’incontra traccia di reminiscenze o d’imitazioni classiche: tutto egli cava da se stesso e dal suo popolo; le espressioni, che talora sanno di trivialità contadinesca, le immagini, i paragoni, non escono mai dalla cerchia della vita e dalla capacità del cervello d’un contadino. […] Anche nei luoghi in cui ognuno si aspetterebbe un richiamo classico, pare che il poeta l’abbia evitato di proposito.” (G. Morici, “Il poeta nazionale della Lituania Cristiano Donalitius”, Studi baltici, vol. 3, 1933, pp. 45-46)

L’intento moralistico/edificante è un altro aspetto evidente, soprattutto negli interventi in prima persona del narratore. Spesso, dopo qualche episodio significativo, si leggono ammonimenti e insegnamenti rivolti al lettore. Eppure, non si può dire che in generale Le Stagioni sia un’opera didascalica o moraleggiante. L’influenza illuministica si legge in quella che è la questione perennemente presente, sebbene in tra le righe, ovvero l’identità, la dignità e la tradizione lituana.

Che cos’è, dunque, Metai? Un canto epico? Un’allegoria della vita dell’uomo? Un lungo sermone? Uno squarcio realistico sulle condizioni di vita dei būrai nella Prussia Orientale?

Non ci resta che rispondere che sì, è tutto questo. Ma anche molto di più.

 

I temi e il mondo poetico di Metai

Metai è un poema collettivo, nel quale non c’è né un protagonista né una vera e propria trama. Protagonisti sono la natura nel suo evolvere stagionale e la comunità degli abitanti dell’immaginario villaggio di Vyžlaukis. La trama – se di trama si può parlare – è il semplice susseguirsi delle stagioni e delle attività umane ad esse legate. Gli elementi narrativi sono costituiti da aneddoti o da episodi rievocati. Un esempio è la vividissima scena del signorotto ingordo ed ubriaco che muore fra atroci tormenti a causa dei suoi stessi eccessi (Gioie di primavera, vv. 202-244). C’è abbondanza di passi descrittivi, soprattutto della natura (i paesaggi e gli animali) e delle attività umane (i lavori agricoli, la tessitura, i commerci, ecc.).

I singoli personaggi non hanno un’identità individuale, ma servono a descrivere i ‘tipi’ della collettività. Questo fa pensare al valore sociale dell’opera. Donelaitis non ha voluto tanto raccontare una storia, quanto descrivere, immortalare una realtà, un contesto storico e sociale ben preciso, quello della sua gente. Siamo di fronte ad un epos del servo della gleba. Se il poeta prende le difese dei būrai contro i padroni oppressori, allo stesso tempo non risparmia rimproveri ai contadini, non intende edulcorarne la descrizione o tacerne i vizi.

Qui si potrebbe aprire un lungo dibattito sul pensiero sociale e politico del poeta. Basterà sottolinearne alcuni aspetti. Prima di tutto, il pastore fu senza dubbio sensibile alle ingiustizie sofferte dal suo gregge e lottò (da scrittore, da parroco e da amministratore) per migliorarne le condizioni di vita. Altrettanto sicuramente, l’indottrinamento filo-reale e filo-feudale che dovette ricevere a Königsberg, in lui non attecchì. Lo dimostrano questi tre versi in latino, consegnati ad una lettera del 1777: Felix parochia! ubi nulla regia via; / Felicior illa, ubi nulla regia villa; / at felicissima ista, ubi nullus Nobilista (Beata la parrocchia dove non c’è strada regia / ancor più beata quella dove non c’è tenuta regia; / ma beatissima è questa, dove non c’è alcuna nobiltà)

D’altro canto, però, egli non sposò mai idee rivoluzionarie, né di ribellione, né di cambiamento (violento o meno). A questo contribuì forse una visione religiosa che – secondo i precetti della mansuetudine, dell’umiltà, dell’accettazione della volontà di Dio – condannava chi voleva aspirare ad altro da quello che gli era assegnato. Su questo aspetto, si può vedere anche la “morale” della favoletta La quercia spaccona (vv. 37-49): l’ammonimento è rivolto non tanto all’arrogante (che avrà la ricompensa che si merita), quanto al “malvagio mendicante”, ovvero il povero che invidia il ricco. A lui si dice: “resta come Dio ti volle” (v. 37).

Fondamentalmente, la proposta che il poeta offre ai suoi lettori è vivere onestamente. I valori cristiani della bontà, dell’onestà, della laboriosità e della saggezza sono la via da percorrere e la ricompensa stessa per chi la segue. L’autore sembra suggerire che sebbene il mondo sia ingiustamente suddiviso in ordini sociali non equi, l’appartenenza ad un ceto non determina la scelta personale del come vivere. All’uomo è riservata la possibilità di un progresso morale. Il destino dell’uomo è nelle sue stesse mani, e il servo può arrivare, con l’onestà, più in alto del padrone.

Il poema è percorso da una continua e netta cesura tra il bene e il male. Questa dicotomia basilare, ovvia, è ampiamente utilizzata. Prima di tutto, i personaggi sono nettamente divisi tra i buoni e i cattivi. I buoni sono Pričkus, Selmas, Lauras, Krizas, ecc. I cattivi Dočys, Plaučiūnas, Slunkius, Pėlėda, ecc. I primi sono saggi, timorati di Dio, avveduti, lavoratori, mentre i secondi sono fannulloni, presuntuosi, beoni e ladri.

Tutto questo può apparire un artificio retorico molto scontato, forse persino ingenuo. Ma il poeta non lo nasconde neanche per un attimo, perché il suo scopo è sì descrivere, ma anche edificare il lettore. Tenendo in mente questa visione del mondo tradizionale e tradizionalista, non possiamo – come lettori moderni – non restare stupefatti dall’uso della lingua assolutamente sorprendente e innovativo. Donelaitis è grande anche per questo.

 

Una lingua innovativa

La scelta di comporre versi in lituano è già di per sé innovativa. Non era questa una lingua di cultura, né aveva una tradizione poetica. Certamente non fu una scelta obbligata, dal momento che il poeta padroneggiava bene il latino ed il tedesco. Fu dunque una decisione precisa e lucida. Ma ancora più coraggioso è l’utilizzo di un lituano specifico, molto marcato – diremmo oggi – in termini diastratici e diatopici. Quella di Metai è nient’altro che la lingua dei contadini lituani della Prussia Orientale. La lingua parlata tutti i giorni, un sermo cotidianus colorito, vivace, semplice e versatile. È anche una lingua fortemente influenzata dal contesto storico e dalle vicende politiche dei suoi parlanti. Pertanto in essa si riflettono gli influssi alloglotti legati alle diverse stagioni storiche. In particolare, il lessico è ricco slavismi e di germanismi. All’influsso russo si debbono termini quali delmõnas “tasca” (lit. mod. kišẽnė), cfr. russ. долманъ, oppure rabatà “lavoro” (lit. mod. dárbas), cfr. russ. ровота. Molti termini sono imprestati dal tedesco, ad es. bẽkerė “fornaio”, cfr. ted. Bäcker; špielmonas “musicista”, cfr. ted. Spielmann; jùmprova “ragazza”, cfr. ted. Jungfrau, dial. iunfraw, ecc. Per il resto, invece, la morfologia e la sintassi sono autenticamente lituane. Agli orecchi moderni, i costrutti di Donelaitis suonano arcaici e talvolta difficili.

Richiamando ancora una volta il Morici, si può ben affermare che Donelaitis ha il merito di

“[…] avere per primo, se non creata, rinnovata la lingua lituana, di cui sentì tutta la solennità arcaica, come di quella che sembrerebbe più vicina alla lingua che gli aria dovettero parlare, prima delle loro migrazioni: all’avere, prima del Klopstock e del Goethe, piegata quella lingua, che egli prendeva dai canti e dalle novelle del popolo, all’epica maestà dell’esametro, pur trattando umili cose.” (G.Morici, op. cit., p. 45)

Infatti, se da un lato è sermo cotidianus, dall’altro non è humilis, perché gli è conferita pienissima dignità poetica. Ricca di immagini popolari, di espressioni semplici ed efficaci, di fraseologismi, la lingua di Le Stagioni è forse il vero punto di forza di Donelaitis. L’autore la rende versatile, talvolta persino ruvida, ma sempre altamente figurativa.

Per quanto riguarda la grafia, essa è piuttosto incoerente. Evidentemente l’autore se ne interessò poco (a questo proposito, va ricordato che il testo non fu mai preparato per la pubblicazione). Furono utilizzati vari grafemi oggi esclusi dall’alfabeto lituano, come: ë , ʃ, w, ź, cz/cʓ al posto dei moderni ie, š, v, ž, č. Inoltre, nei manoscritti originali gli accenti sono interamente segnati. Le immagini qui sotto mostrano come appare il manoscritto originale (a sx), e la differenza fra i caratteri originali e la trascrizione in grafia moderna (a dx).

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Peripezie di un manoscritto

Finché il poeta fu in vita, i suoi versi ebbero una circolazione molto ridotta, limitata agli amici più intimi. Come si è già detto, l’autore non destinò il testo alla stampa. Sappiamo però che quando aveva ospiti era solito intrattenerli con la lettura di estratti. Metai fu redatto su dei fogli di carta piuttosto spessa e ruvida, di dimensione 36 x 20 cm, e custodito nella casa del poeta. Quando questi morì, la moglie Anna Regina decise di affidare il manoscritto a J. Jordan (1753-1822), giovane parroco della vicina Valtarkiemis e amico del poeta. Questi ne fu il custode per una quindicina d’anni. Nel 1794 il pastore J. Hohlfedt (1767-1829), assegnato alla vicina parrocchia di Gerviškėnai, si interessò ai manoscritti e li ebbe in prestito da Jordan. Prima di restituirlo, Holfedt copiò per intero il poema. Non sapeva quanto sarebbe stata provvidenziale quella premura. Infatti, in seguito agli eventi bellici del 1812, due stagioni (Le ricchezze dell’autunno e Gli affanni dell’inverno) scomparvero o furono distrutte. Se Holfedt non le avesse ricopiate, oggi non le conosceremmo.

Intanto a Königsberg L. Rhesa si stava occupando di raccogliere materiale sulla letteratura popolare e il folclore lituano. Durante il lavoro si era scambiato delle lettere anche con J. Jordan, il quale gli consegnò la parte superstite degli autografi e, successivamente, anche le due stagioni apografe nella trascrizione di Hohlfedt. Nel 1818, spinto anche dall’interessamento di W. von Humboldt, Rhesa pubblicò la prima edizione dei quattro poemetti e dette loro il titolo Metai. Al testo originale accompagnò anche una traduzione in tedesco.

Rhesa ebbe dunque nei propri archivi i manoscritti di Metai, ma non solo quelli. Egli infatti fa riferimento a delle lettere e a degli inni religiosi composti da Donelaitis che non ci sono mai pervenuti. Riguardo a questi ultimi scrisse: “qualche anno fa si trovavano nelle mani di un amico in Lituania, ma dopo averli prestati sono scomparsi”.

Alla morte del professore, i suoi manoscritti (compresi gli autografi di Donelaitis) finirono nell’archivio segreto di Königsberg. Le copie invece furono restituite a Hohlfedt. Di queste si impossessarono prima i parenti del parroco, successivamente furono acquistate all’asta da Regina Stellbogen-Westphal, dopodiché nel 1864 passarono all’associazione “Prussia” (che si occupava di ricerche sulle antichità prussiane) e custodite nei locali dell’archivio reale della provincia di Königsberg. Ambedue le edizioni di Metai curate da A. Schleicher (1865) e G.H.F. Nesselmann (1869) si avvalsero anche di questi apografi.

Degli autografi di Donelaitis ad un certo punto si perse traccia, e per molti anni si è creduto di averli peduti. Nel 1945, però, una spedizione guidata dal prof. P. Pakarklis ha riportato alla luce, in modo inatteso, i due manoscritti autografi. Si trovavano nelle rovine del castello di Lochstedt, a 35 km da Königsberg. Dapprima furono affidati alla biblioteca centrale dell’Accademia delle Scienze, dopodiché passarono nella biblioteca dell’Istituto di lingua e letteratura lituana (oggi Istituto lituano di letteratura e folclore) dove sono tuttora custoditi.

I manoscritti di Hohlfedt invece si trovavano nella sezione manoscritti della biblioteca universitaria di Königsberg, ma, dopo la Seconda Guerra Mondiale, se ne è persa ogni traccia.

 

E in Italia?

A partire dalla prima edizione, la fama di Metai si è molto diffusa al di fuori dei confini nazionali, soprattutto nell’Europa centro-orientale. Esistono svariate traduzioni in tedesco e in russo, ma anche polacco, ucraino, ceco, lettone, estone, bielorusso ed altre ancora. Nel Novecento il suo successo è passato anche “al di qua del muro” con due traduzioni in inglese e una in svedese. È inoltre in preparazione l’edizione spagnola, che verosimilmente uscirà nel corso del 2013.

E in Italia? Qui c’è un ritardo nella conoscenza di Donelaitis, che va del resto contestualizzato nel discontinuo e piuttosto scarso interesse da noi mostrato per le letterature dei paesi baltici. Pure non sono mancate figure che hanno dedicato attenzione al padre delle lettere lituane. Uno tra questi, forse il primo, fu Giuseppe Morici. Il suo articolo “Il poeta nazionale lituano Cristiano Donalitius” (1933) fu il primo intervento critico dedicato specificamente al nostro poeta. Là si possono anche leggere alcuni passi in traduzione italiana, messi a puro scopo esemplificativo. Nello stesso anno Nicola Turchi pubblicò La Lituania nel passato e nel presente, dove si trova qualche riga dedicata a Donelaitis. Successivamente, nel 1963, Giacomo Devoto curò il volume Storia delle letterature baltiche. La parte lituana, redatta da Alfred Senn, contiene un capitolo interamente consacrato a Donelaitis. Di lì a poco, la ricorrenza dei 250 anni dalla nascita del poeta, nel 1964, coincise con la pubblicazione in Italia della prima traduzione dell’opera di Donelaitis. Si tratta dei preimi 120 versi delle Gioie della primavera pubblicati sul bollettino d’informazione ELTA-Press a Roma. Autore della traduzione e della notizia su Donelaitis che l’accompagnava era monsignor Vincas Mincevičius, curatore di molte altre pubblicazioni riguardanti soprattutto la vita e la cultura religiosa lituana in patria e in esilio. In tempi più recenti, al poeta sono state dedicate alcune pagine in manuali di argomento più generale come Le lingue baltiche o L’anello lituano di Pietro U. Dini.

L’occasione più grande di conoscere Metai in Italia, paradossalmente, non è provenuta dai circuiti della letteratura, ma da quelli del teatro. Infatti nel 2003 il celebre regista lituano Eimuntas Nekrošius portò in giro per l’Europa – facendo tappa anche in Italia – l’allestimento teatrale di Gioie di primavera e Ricchezze d’autunno.

Altre notizie, brevi, sporadiche (e non sempre corrette!) si possono leggere qua e là sul web, ad esempio nelle enciclopedie online, in alcuni blog o portali d’informazione e nell’immancabile Wikipedia.